Cara camicia bianca,
Lo so, non sono il figlio perfetto. Dovrei studiare di più, aiutare di più, stare a casa di più. Ma adesso a me va solo di fare di meno. Meno di tutto.
Una camicia bianca appesa a una gruccia.
Sta lì, ti guarda.
Ti aspetta.
Aspetta che tu diventi grande e la indossi.
La tua uniforme di adulto.
La camicia bianca è uno degli oggetti simbolo/metafora/allegoria dello spettacolo Futuri Maestri: rappresenta il mondo (soprattutto adulto) al quale scrivere, chiedere, parlare, dal quale cercare di farsi ascoltare.
Nicola Bonazzi, che coordina il lavoro drammaturgico per lo spettacolo nonché i laboratori di scrittura che hanno coinvolto oltre duecento ragazzi e ragazze (delle classi 4I del Liceo Copernico e 3T, 4D, 5H, 3Q del Liceo Righi di Bologna; 4B del Liceo Da Vinci di Casalecchio di Reno; 3B dell’I.I.S. Majorana e 4AL dell’ITC Mattei di San Lazzaro di Savena; 3CSU del Liceo Rambaldi – Valeriani – Alessandro da Imola di Imola), ci dice che questo è il fulcro di tutto: «Dalle interviste fatte ai ragazzi in questi ultimi due anni, dagli scritti che stanno producendo nei laboratori, ma anche dalle esperienze che come Teatro dell’Argine abbiamo condiviso negli ultimi vent’anni con il mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, emerge con grande forza la difficoltà che i ragazzi hanno a trovare ascolto e l’insofferenza che questo genera in loro nei confronti soprattutto degli adulti.
E questa insofferenza, questa difficoltà spesso sono risarcite proprio dal teatro: il teatro come luogo dell’ascolto, dimensione di socialità, spazio di autoaffermazione, non intesa in senso narcisistico, ma come affermazione di identità. Per questo i ragazzi “sentono” che il teatro “gli fa bene”, lo sentono di pancia e lo traducono su un piano emozionale, anche se spesso non riescono a formularlo in maniera intellettiva. Questo è talmente vero che il teatro per alcuni di loro diventa l’Esperienza con la E maiuscola e tanti di loro continueranno a farlo per la vita, anche se non come mestiere. Non ne possono fare a meno. Un’esperienza a tal punto formativa da costruire e costituire una parte essenziale della loro personalità».
Parlando di come Futuri Maestri cerca di ascoltare e trasformare in teatro i pensieri dei ragazzi, Nicola ci racconta le loro reazioni dopo l’ultima lettura del copione in progress dello spettacolo: «Una cosa per me stupefacente dei ragazzi è quanto sia difficile per loro tradurre in maniera chiara e decifrabile quello che sentono e che quindi a volte finisce dentro parole che rischiano di essere inadeguate oppure dentro flussi infiniti di pensiero. Quando ieri siamo arrivati in fondo alla lettura del copione, si respirava una tale emozione… L’emozione della comprensione, l’emozione del sentire che quella cosa lì è lo specchio di quello che vorrebbero dire se solo avessero le parole giuste per farlo. Questo accade perché lì ci sono i loro pensieri e le loro emozioni che noi assorbiamo da tanto tempo? Può essere. Certo è che anche l’adolescenza cambia ed è cambiata molto in questi ultimi vent’anni. Gli adolescenti con i quali ci rapportiamo ora sono al contempo “super maturi” e “super immaturi”. Sono incredibilmente maturi perché hanno tantissimi strumenti e media a disposizione e hanno sviluppato una straordinaria capacità di muoversi tra essi e con essi, che li rende molto precoci. Però poi spesso manca loro la profondità necessaria per leggere tutti gli input che raccolgono. L’essenza che sta dietro e al fondo di questo paradosso è che hanno dentro come delle pentole a pressione che devono sfiatare. E questo è loro consustanziale».
Le cinque parole chiave del progetto Futuri Maestri – amore, guerra, lavoro, crisi, migrazione – dovevano servire anche a questo, a guidare la riflessione, a incanalarla, in un certo senso. Chiediamo a Nicola quali riflessioni nate a partire da esse lo abbiano più colpito: «Una prima riflessione riguarda la parola “guerra”, della quale i ragazzi hanno una percezione pallida, per loro è una cosa lontanissima. Anche per questo è il tema sul quale rischiano di dire cose più banali o generiche. Invece sentono vicinissimo e fortissimo il tema del lavoro e della crisi, che sono le parole sulle quali più e meglio riescono a esprimersi. Lo sentono talmente tanto che associano a questo tema anche il tema della migrazione, non solo o non tanto come racconto delle tragedie di molti profughi ma come nodo di riflessione su se stessi, prevedendo un futuro che li costringerà a migrare. Un ragazzo mi ha chiesto: “Ma possiamo parlare anche di noi che migriamo?”».
In testa e in coda a questo articolo, un paio di esempi di scrittura dei Futuri Maestri, in attesa di vedere in scena il loro spettacolo a giugno.
Mamma chiama, urla, come al solito, ha sempre ragione lei: prendo le scarpe e scappo.
Babbo non c’è, non c’è mai stato, mai ci sarà (forse dovrei farmene una ragione): prendo le scarpe e scappo.
Nonna è morta non è giusto, non può essere giusto, non lo sopporto: prendo le scarpe e scappo.
Mi butto a letto, leggo, mi dà fastidio ciò che leggo. Questa volta niente scarpe. Scalza, scappo.