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Paola Caridi: le parole della Luna

Sulla scena:

  1. una lanterna (in Egitto si chiama fanous)

  2. una palla gonfiabile che abbia la forma della Terra, e che sia una carta fisica e non politica della Terra

كان يا ما كان،في قديم الزمان

Kan ya ma kan, fi qadima zaman
Kan ya ma kan, fi qadima zaman
Kan ya ma kan… C’era una volta
Fi qadima zaman…. Nei tempi che furono

Ho vissuto per oltre dieci anni tra il Cairo e Gerusalemme. Yerushalaim in ebraico, al Quds in arabo. Ho ascoltato le storie della città. Storie di famiglia. Storia di guerra. Storie di dignità.

I miei amici mi chiamerebbero in arabo hakawatiyya, colei che racconta storie. È vero. Dopo averle ascoltate per tanti anni, ora è tempo che io racconti.

Kan ya ma kan, fi qadima zaman.

Al Cairo, il cielo scende vicino alla Terra quando fa buio. Come fosse una coperta nera punteggiata di piccole infinite luci. È allora che il vecchio saggio si prepara. Si mette in testa il copricapo dello sheykh, bianco e rosso scuro. Si chiude per bene i bottoni della palandrana grigia, lunga fino ai piedi. E soprattutto prende la lanterna.

Il fanus, come lo chiamano al Cairo, gli serve per trovare la giusta strada. La luce della lanterna lo guiderà per prendere la decisione che tutti si aspettano da lui.

Il vecchio saggio si incammina verso la montagna del Cairo. Il Moqattam. Deve guardare quel cielo basso più da vicino. Deve trovare la traccia della Luna. La Luna crescente. La Luna Nuova. Se la troverà, vorrà dire che il sacro mese di Ramadan è iniziato.

Dalla sommità della montagna, lo sheykh si mette a guardare le stelle. Le osserva per bene. La decisione è difficile, e occorre tempo e pazienza. Tra gli astri che brillano, a un certo punto scorge un alone attorno a una luce. È lei. È la luna nuova. Il vecchio saggio è convinto. Non ha tentennamenti.

Il Ramadan può iniziare. I fedeli in Dio, i fedeli musulmani, riflettono sui pensieri e sulle azioni che hanno compiuto. Riflettono, e digiunano, ogni giorno. Come se il corpo dovesse aiutare lo spirito a guardarsi bene nel cuore.

Il vecchio, però, si ferma per un momento a guardare quella lama luminosa circondata da un alone.
La Luna osserva la Terra, di lontano. Vede una palla azzurra e verde e marrone e gialla. Scorge le luci delle città.
La Terra, però, non guarda mai se stessa. Se si guardasse, non troverebbe i confini.

Confini. La prima parola che vi consegno.

Abbiamo ferito la Terra con le matite. Abbiamo tracciato linee immaginarie con le matite, e questi solchi sulla terra sono ferite che non si rimarginano. Li abbiamo chiamati “confini”. Servono a dividere. A dire: qui è il mio, e lì è il tuo. Lontano da me. Servono ad armarsi per difenderli, i confini immaginari. E i confini sono diventati, per noi, come una spugna imbevuta di sapone che lava via le nostre colpe. Ammazziamo per i confini. Cacciamo via le persone, per i confini. Imprigioniamo donne e uomini dentro i recinti di un campo profughi, di un carcere, di un centro di accoglienza.

È vero, talvolta i confini sono stati la salvezza. Oltrepassare i confini che dividevano le dittature dalle democrazie voleva dire essere vivi e protetti. In esilio ma protetti. Quasi sempre, però, i confini hanno per noi un altro significato: rendono invisibili i nostri fratelli dall’altra parte della frontiera.

A voi il compito, Futuri Maestri, di guardare la Terra dalla Luna. Curare le ferite. Chiudere i solchi. Cancellare i confini. E dimenticarla, questa parola. Forse, dimenticando i confini, cancellerete anche la seconda parola che vi consegno. Guerra.

La guerra, dalla Luna, è un rumore. Spari. Crepitii. Pianti. Urla. Il rumore che fa l’odio. E l’urlo del dolore.

Dovete cancellarla, questa parola.

Come? Come per ogni veleno, c’è un antidoto. E per cancellare una parola, ne occorre una più potente.

Io l’ho trovata. A dire il vero l’ho cercata nelle pieghe delle città, perché era stata calpestata tante volte. Per le strade di Gerusalemme, accanto alle pietre sacre. Per le strade di Bologna. Per le strade di ogni dove. Al Cairo. A New York.

È una parola che tutti indossiamo. Riveste come una camicia leggera il nostro corpo. È la dignità.

Non è una corazza. Non è un carroarmato. È fatta di tessuto fino: una camicia, una maglietta. Facile da strappare. Eppure è la cosa più sacra che possiamo indossare. La dobbiamo indossare ogni giorno, e far vedere a noi stessi e agli altri che c’è. Esiste la nostra dignità. Sempre. Ci ricorda quanto è sacro il nostro corpo. Quanto è sacra, allo stesso modo, la nostra libertà. Libertà, di pensare, di scrivere, di essere felici.

Dignità significa che ogni persona, ogni corpo, ogni spirito è degno. Bisogna vivere in modo dignitoso. Avere un lavoro dignitoso. Morire in dignità. Essere guardato e trattato con rispetto.

La dignità è fragile, non usa armi. Eppure, la sua fragilità è la forza morale che inchioda i carnefici alle loro colpe. Chi compie crimini contro il corpo e la libertà di qualsiasi persona, chi strappa la maglietta della dignità dal corpo di qualsiasi persona compie un crimine. Un crimine per il quale verrà accusato e punito dalla Legge. Un crimine per il quale saremo noi tutti, sarete soprattutto voi Futuri Maestri a condannarlo.

Avere dignità può essere molto difficile, quando non abbiamo il potere di difenderla. Se leggiamo la fame sulla faccia dei nostri figli. Se ci legano le mani con una corda o un paio di manette. Se ci puntano un mitra sulla faccia. Se non abbiamo un lavoro, i soldi per mangiare e dormire in una casa.

Gli arabi hanno una parola, la quarta che vi lascio. Dicono sumud.

Non è difficile da pronunciare. È difficile da tradurre. Significa: pazienza, fermezza, schiena dritta, resistenza pacifica e nonviolenta all’ingiustizia. Da qualche tempo, in italiano si usa la parola resilienza, da resilience in inglese. A me piacerebbe se ne inventaste un’altra, in italiano. Una parola piena, densa di significato e di rispetto. Deve avere dentro la forza della pazienza, la statura della fermezza, la serenità dei propri diritti inalienabili. Un grande uomo, Vaclav Havel, artista, uomo di teatro, l’aveva chiamato il potere dei senzapotere. Costruitela, la parola italiana che traduce sumud. E datele spessore.

E per far tutto questo, eliminare i confini e la guerra, difendere la dignità con una nuova parola che traduca il sumud, l’ultima parola che vi consegno è lanterna. Fanous. Usatela per illuminare la strada. Non per trovare la strada più facile. Ma la strada giusta.

Buon viaggio

 

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